La bodda ucciara
E' un racconto giallo di finzione, ambientato nella Viareggio degli anni '30
in cui si inseriscono alcuni tratti di personaggi e situazioni realmente accadute.
Un occasione per conoscere un periodo storico e certe atmosfere tramite la snellezza di una narrazione fluida e coinvolgente.
Si sviluppa in cinque puntate di trenta minuti circa e di due puntate di commento - intervista con l'autore, sugli eventi e la situazione storica e politica.
Particolare attenzione è stata dedicata al commento delle musiche inserite in accompagnamento alla lettura, alla loro natura e al significato.
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La bodda ucciara
di Federico Rovert
Via Pinciana - prima puntata
I tre giorni di libeccio avevano lasciato posto a un moderato maestrale che, spazzate le ultime nuvole, mostrava ora un cielo limpido e luminoso. La città viveva gli ultimi giorni di un'estate prospera e spensierata.
La Versilia si preparava al desiderato momento di respiro, prima delle "follie" carnevalesche, offrendo, alle numerose famiglie con figli piccoli, che cercavano un soggiorno tranquillo, un fine Settembre temperato nel clima e luminoso nell'immagine.
Negli stabilimenti balneari si respirava aria di "disarmo" e alcuni - specie quelli vicini al Marco Polo e oltre - già avevano accatastato le paratie che avrebbero chiuso e protetto i fabbricati durante l'inverno.
Rodolfo - bagnino del "Bagno la Pace" - spendeva i momenti liberi a confezionare le lunghe sequele di peperoncini da appendere per una decina di giorni al soffitto della struttura, perché si seccassero a dovere, prima di essere riposti nelle caraffe della cucina: insostituibile sussidio all'insaporimento dei futuri "cacciucchi".
La Darsena cominciando a ripopolarsi dei vari natanti da diporto per la rimessa invernale, spandeva l'odore di calafatura fino all'ingresso della Passeggiata.
Lungo il Canale s'infittiva il numero degli "zii" che tiravano al muggine, mentre tra quelli che praticavano il "traghetto" da una riva all'altra, per evitare il lungo tragitto a piedi fino al Ponte Girevole, s'ingaggiavano feroci rivalità per la conquista degli ormai rari clienti:
«Venga, signora, attraversi con me che ci'ho la barca sicura!» a cui faceva riscontro l'ammonimento del rivale:
«Signora! Dia retta, un ci vada con lullì: glelo tira 'n culo al primo scalino!»
Qualcuno azzardava proposte più allettanti, nella speranza di un ricavo sostanzioso:
«Signore venga a fare un giretto lungo la riva: è patana, il mare pare una tavola...»
Ma tutto era ormai avviato a una stanca ritirata, nel desiderio di tranquillità per una città troppo stressata dalle solite intemperanze estive. Ricominciava la vita, un po' misteriosa e nascosta, della Viareggio invernale.
I capannoni del Carnevale, avevano in estate le porte aperte e già qualche carro mostrava la fase avanzata della sua creazione, frutto d’idee e ripensamenti maturati da tempo e ora finalmente in opera.
Anche se era regola che i soggetti trattati restassero un segreto fino all'uscita del primo corso, in realtà, era difficile mantenerla e cosi, già prima dell'autunno, tutta la città sapeva e discuteva su soggetti e realizzazioni. Più facile invece mantenere la sorpresa per le maschere a terra: si costruivano sempre al coperto e con un tempo di lavoro di corta durata.
Anche per i futuri corsi del 1939 si stavano concludendo le estenuanti pratiche politico/burocratiche in merito ai soggetti da rappresentare: divieti e consigli (per non chiamarli "imposizioni") si erano accumulati già da tempo e solo l'esperienza dei principali maestri carristi - non solo artistica ma anche "diplomatica"- consentiva un risultato accettabile sia dal lato estetico che da quello moderatamente satirico.
Si sapeva già che i fratelli Pardini avrebbero mostrato una fantasiosa interpretazione della "Danza delle Ore" e che qualcosa che si riferiva alla preistoria poteva portare i dinosauri sulla passeggiata a mare. Per il resto: sorpresa!
D'altronde poco più c'era da aspettarsi: i carri grandi richiedevano un lungo lavoro ed era logico che ci si piegasse un po' - obtorto collo - non tanto alle censure ma piuttosto alle "direttive", per non incorrere nel taglio di quei pochi contributi indispensabili a coprire le spese maggiori. Idem per quelli piccoli, anche se con meno attenzione, mentre per le "Maschere a piedi" (spesso realizzate all'ultimo momento) era più facile esprimere qualche sottile ironia, spesso compresa solo da un ristretto e preparato pubblico.
Su questo puntava da tempo un gruppo un po' underground - come si direbbe oggi - di mascherai di via Pinciana. Per i viareggini il nome della strada diceva molto, anche se pochi la conoscevano per non averci mai messo piede.
Situata nella parte estrema, a est della città, era da sempre considerata "terra di frontiera", ovvero un luogo dove si annidava la peggior feccia della popolazione, alloggiata in edifici di fortuna o - nel migliore dei casi - in veri fabbricati mai del tutto rifiniti e totalmente mancanti di ogni servizio igienico/sanitario.
Era idea comune (ma forse si trattava di una "leggenda metropolitana") che anche le forze dell'ordine avessero qualche difficoltà ad inoltrarvisi e che solo il vecchio e "maturato" Maresciallo dei Carabinieri Nieddu (un sardo "naturalizzato" viareggino) possedesse una certa dimestichezza con l'ambiente e la sua eterogenea popolazione.
continua